L’Unione europea, nonostante i ritardi iniziali, ha messo insieme un numero senza precedenti di piani ed azioni per far fronte agli effetti economici della pandemia. Lo schema SURE per mitigare gli effetti della disoccupazione, la flessibilità fiscale, il Meccanismo Europeo di Stabilità – che per quanto criticato rimane una fonte di finanziamento utile e necessaria per rimpolpare le finanze della sanità e non solo – e, non da ultimo, il piano Next Generation EU, giusto per citarne alcuni.
Anche se tutte queste misure sono contingenti all’emergenza Covid, contengono le basi per accordi permanenti che vanno verso un’unione di stampo fiscale e politico. In questo senso, come sottolineato dal vice-cancelliere tedesco Olaf Scholz, hanno la potenzialità di divenire un momento hamiltoniano per l’Europa, richiamando non a caso l’allora Segretario al Tesoro Americano, Alexander Hamilton, che nel 1790 decise di rendere i debiti individuali degli Stati americani una responsabilità del Governo federale.
Perché l’Unione Europea abbia successo nell’uscire dalla crisi non solo sanitaria ma anche economica, e sia in grado di costruire una struttura di governance politicamente e strategicamente più coesa, ci sono però tre elementi imprescindibili da considerare.
Servono fondi adeguati, come previsto dal budget europeo che raggiungerà 1,8 mila miliardi di euro, ma anche velocità di decisione da parte degli Stati membri nell’approvare il bilancio comunitario per il 2021-2027. Come sottolineato dal primo vicepresidente esecutivo della Commissione europea Frans Timmermans, ogni ritardo sull’approvazione del bilancio pluriennale, da cui dipendono anche i fondi del Piano Next Generation EU, potrebbe costare milioni di lavori e allontanare nel tempo la possibilità di un rilancio economico.
La velocità di azione è sempre stata uno dei talloni d’Achille dell’Unione europea. Ad oggi il veto polacco ed ungherese sul budget europeo, che è legato non tanto ad un disaccordo sui fondi, ma alla proposta di legare questi ultimi al rispetto dello stato di diritto, rappresenta un ostacolo all’approvazione del budget ma anche alla costruzione di un Unione per “la prossima generazione” che sia veramente basata su valori di democrazia e rispetto dei diritti. Non dovrebbe esserci nulla di particolarmente scabroso in questo.
D’altronde, Polonia e Ungheria hanno firmato e ratificato numerosi Trattati europei, sottoscrivendo così le idee di diritti, doveri e libertà individuali e collettive, sociali ed economiche, che sono colonne portanti non solo di un’identità valoriale europea ma anche di una sua coesione strategica e politica necessaria a rendere le sue azioni efficaci.
Lasciando da parte la questione della tempestività, il successo di Next Generation EU ma anche la prospettiva di una rapida rinascita economica sono legati alle riforme strutturali che i Paesi membri possono e devono mettere in atto a fronte dei fondi che riceveranno. Le riforme strutturali devono in questo senso non solo essere efficaci e puntare ad uno sviluppo sostenibile e il più possibile “green” ma devono soprattutto guardare alle piaghe sociali che affliggono ogni Paese membro. Dal 2008, la disoccupazione e la precarietà lavorativa, soprattutto quella giovanile e delle donne, sono spine nel fianco ed indicano una latente stagnazione dell’economia europea.
Solo nel 2019, più di 3 milioni di giovani tra i 15 e i 24 anni erano disoccupati, ed il trend è destinato a crescere nel 2020, così come quello del gender gap. In ogni singolo Paese europeo i lavoratori che hanno sofferto di più le conseguenze del Covid-19 sono state le donne, sia perché spesso ricoprono ambiti legati ai servizi del mondo della cultura e del turismo, che maggiormente hanno pagato le conseguenza dei lockdown, sia perché già prima della crisi, circa il 25% delle donne europee, rispetto al 15% degli uomini, aveva lavori precari. A questo si aggiunge un gap salariale generalmente molto alto.
Le donne guadagnano in media il 14% in meno degli uomini. Questo significa che una grossa fetta di potenziali lavoratori, le cui competenze potrebbero contribuire allo sviluppo economico nazionale ed europeo, sono di fatto tagliati fuori dal mercato del lavoro o non correttamente retribuiti.
Inoltre, al di là della giustizia sociale, è necessario che gli Stati membri implementino piani di riforme strutturali efficaci anche per far fronte a delle insicurezze più politiche. Interessante è il sondaggio condotto da ECFR che sottolinea come la stragrande maggioranza dei cittadini di Finlandia, Danimarca, Austria, Svezia e Paesi Bassi, cioè di quei “Paesi frugali” che puntano a rendere i piani europei per il rilancio economico solo temporanei e non permanenti, approvi il budget europeo ma tema che questi fondi verranno in qualche modo sprecati da alcuni Stati membri. È evidente, seppure non diretto, che il commento è rivolto ai governi dei Paesi del Mediterraneo e ricalca una diatriba che ormai va avanti da anni sulla necessità di questi ultimi di rendere le proprie economie più competitive tramite riforme strutturali come il taglio della burocrazia o la digitalizzazione dei processi. Insomma azioni che tramite i fondi europei potrebbero ora essere messe a punto.
L’importanza delle insicurezze dei cittadini, che siano sociali, economiche o politiche, è assoluta. Sebbene il 65% degli europei sia oggi a favore dell’UE, i governi dei Paesi membri devono guardare proprio a quelle “grandi minoranze” che non credono più al progetto comune, per varie ragioni. Forse si trovano in condizioni di precarietà economica, o pensano che il proprio Paese non sia ascoltato a livello europeo.
È indispensabile cercare di appianare i conflitti sociali risolvibili ora, perché proprio sul disagio dei cittadini si costruisce la propaganda anti-europea ed euroscettica dei partiti populisti. Basti vedere i risultati delle elezioni negli Stati Uniti. Trump è stato sconfitto, il trumpismo no. La stessa cosa vale nell’Unione Europa. Se non si parla di populismo oggi perché il Covid domina su tutto, questo non significa che il populismo sia finito.
C’è il concreto rischio, anzi, che l’onda lunga della pandemia e delle sue nefaste conseguenze sociali ed economiche, porti nuove forze sovraniste ed euroscettiche alla ribalta, minando la concreta possibilità di costruire una volta per tutte una Unione Europea in grado di agire all’unisono, con tempestività ed audacia di fronte alle sfide interne ed esterne. Per farlo serve una coesione politica e strategica maggiore e che non ambisca ad un semplice minimo comune denominatore, il sostegno dei cittadini ed un rilancio sostenibile ed equo dell’economia europea.
Se non è questo è il momento, quando mai lo sarà?
Eleonora Poli è ricercatrice all’Istituto Affari Internazionali (IAI).